Giobbe senza risposta

04/06/2025

Narra la Bibbia che il Signore, volendo mettere alla prova il suo servo fedele Giobbe, fece morire i suoi figli, pur sapendoli innocenti come il padre. Il Libro di Giobbe fa proprio, sino ad elevarlo a preghiera il senso di ingiustizia  ed il grido di disperazione dell'uomo che chiede conto al suo Creatore del male che gli accade. Grido che alla fine troverà una isposta, sebbene Dio scelga di farlo non per accontentare quella sete di giustizia, ma per celebrare con potenza l'eterno mistero della Sua volontà.

Sembrano fatti lontani, arcaici, eppure la loro collocazione geografica è la stessa desolata terra in cui, oggi, assistiamo ad una guerra anch'essa "biblica", e dove la figura della madre a Gaza che piange nove dei suoi dieci figli uccisi in un bombardamento israeliano assume la forza simbolica di un grido che pretende una risposta.

Ora sappiamo che l'Europa ha saputo ben mascherare sino a questo momento la sua debolezza in merito al conflitto israelo-palestinese, restando in silenzio. Silenzio che in realtà direbbe tanto sulla capacità dell'Europa di essere sempre se stessa, in coerenza con la sua Carta dei diritti fondamentali ed i suoi obblighi internazionali. Da questo punto di vista, il conflitto che si svolge  in Ucraina ha fatto da alibi alle contraddizioni che altrove si addensavano. L'Alto Rappresentante per la politica estera Kajia Kallas ha sì preso posizione, ma senza essere capace di risolvere il dilemma di fondo: che fare quando un paese riconosciuto come una democrazia ed un alleato, con solidi legami di cooperazione con la UE, scatena una guerra asimmetrica, per difendere la propria esistenza.

L'Europa ha tanto voluto e costruito la pace, che non ha più un bagaglio concettuale adeguato per esprimersi rispetto alle guerre del terzo millennio.

Fino a prima che il mondo muatsse nelle sue regole di convivenza, l'Europa era ferma nel rivendicherare il suo compito pedagogico verso il resto del mondo. Così che, quando si trattò nel 2015 di ridiscutere l'accordo con l'Uzbekistan sul cotone, il Parlamento europeo ebbe gioco facile a ricordare al governo non proprio democratico dell'Uzbekistan che l'Europa considera una violazione dei diritti umani lo sfruttamento di manodopera minorile; pratica, in realtà, comune e radicata nella cultura caucasiche, e non necessariamente tale da rappresentare una forma di sfruttamento.

Oggi, il massacro di tanti bambini a Gaza non trova alcuna reale presa di posizione a livello europeo, in quanto solo alcuni Stati membri hanno invocato la sospensione dell'accordo di associazione con Israele sulla base dell'art. 2, che riguarda appunto il rispetto dei diritti umani. E questo non perché i bambini uzbeki meritino più tutele dai bambini palestinesi, ma per il semplice fatto che far rispettare i diritti umani in tempo di pace non è la stessa cosa che in tempo di guerra. Chiedere una risposta porporzionale e "umana" ad un paese in guerra non trova più riscontro nella realtà; e l'Europa non può rischiare di dover assumere la responsabilità di andare sino in fondo, se decide di stare sempre e comunque dalla parte di chi è vittima di un'ingiustizia.

Sarebbe infatti tale anche la deportazione in paesi terzi, di fatto non sicuri come documentato nei confronti della Tunisia, di persone che hanno la sola colpa di aver violato le frontiere europee; sono escluse le donne e i bambini, questo sì, ma è un distinguo ipocrita. Resta la verità che nel nome dei propri interessi si possono violare i diritti umani. Fa molto meno clamore perchè non ci sono carri armati e bombe.

Così l'Europa resta muta, anche di fronte all'orrore. Giobbe alla fine ebbe altri figli e una vita nuova; il futuro della Palestina potrebbe non avere invece un lieto fine. Forse allora la voce dell'Europa potrà fare la differenza.

CLS

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