La storia presenta sempre il conto, a volte nelle circostanze più inaspettate. Quello che si credeva fosse uno scontro geopolitico, pervaso dalle rivendicazioni territoriali da parte di due popoli con pari diritti e, quindi, irriducibili nelle rispettive posizioni, di colpo assume contorni più antichi e sconcertanti: l'universale pregiudizio nei confronti del popolo ebraico, che nasce e si definisce ad opera dell'Occidente cristiano.
Resuscitare le calunnie che per secoli hanno storpiato il racconto sugli ebrei è l'arma utilizzata oggi dal governo israeliano per accusare proprio l'Europa, culla della cristianità, di guardare ad Israele attraverso le lenti pesanti del suo antico pregiudizio.
In gioco c'è molto di più di quello che Amos Oz chiamava il cupo abisso tra ebraismo e cristianesimo, secondo lo scrittore israeliano brn più profondo e gravido di conseguenze delle divisioni contingenti che opponogono ebrei ed arabi. Ed oggi rischia di essere proprio così.
Israele chiede conto all'Occidente cristiano dei suoi errori nel passato, per accusarlo di mantenere anche nel presente un sottile strabismo nel giudicare gli eventi quando di mezzo c'è il popolo ebraico. Omettendo, però, di dire che l'aver negato ai giornalisti stranieri l'accesso alla Striscia di Gaza ha senz'altro peggiorato il racconto della verità. Tuttavia non è solo questo, c'è altro.
C'è un passato di colpe che si riteneva dovessero gravare soltanto sulla Germania; mentre ora Israele chiama in causa il pregiudizio cristiano come l'alveo concettuale da cui hanno tratto linfa le persecuzioni verso il popolo ebraico, che hanno condotto alle folli ideologie del secolo scorso.
Come risponderà l'Europa ad una logica che si salda con il passato, e può farlo perché, a differenza delle nazioni europee, lo stato ebraico non ha conosciuto un solo attimo di vera pace da quando è nato nel '48? Un solo attimo per rallegrarsi di essere al mondo; un solo decennio per dimenticare cosa significa essere in guerra.
Sembra un interrogativo effimero; ma rivela su un piano nuovo, inaspettato, ma potente, come l'Europa venga ancora una volta chiamata a fare i conti con il passato, dalle crociate in poi, sino alla drammatica età del colonialismo, che oggi presenta il conto sotto forma di masse di indigenti che fuggono da terre affamate.
Il mondo parla linguaggi diversi, perché ha più memoria di noi europei. E l'Europa, per ora, risponde solo parlando il linguaggio dell'economia. E quindi, di fatto, resta muta.
CLS